Diario di bordo: Israele e le sue domande

Inizia il nostro viaggio-racconto in Israele. Un diario di bordo per conoscere meglio la realtà di una terra, di un popolo, di una cultura controversa ma affascinante. Un’esperienza che vivremo attraverso gli occhi e le parole di Lisa

TEL AVIV – Dice Calvino che ogni viaggio è accompagnato da una domanda, che è allo stesso tempo compagna, guida e meta del viaggio stesso. La meta, se vogliamo, sono le risposte che speriamo di trovare.

Ebbene anche io, con il mio grosso zaino in spalla e le valigie appesantite dal materiale di ricerca per la tesi di laurea, sono partita da Roma con la domanda e devo dire che, come sempre, è una compagna di viaggio bizzarra ed insolente: “bizzarra” perché non si rivela, non è unica, ma racchiude in sé numerose altre questioni che aspettano di essere sviscerate; “insolente” perché pulsa come una ferita aperta.

E anche ora, dopo il primo mese in questo lembo di terra non più grande della nostra Puglia, continuo a pormi infiniti quesiti. Che Israele sia una terra affascinante si sa, così come si sa che il conflitto ormai è il suo pane quotidiano. Ma cos’è veramente Israele? Com’è la sua gente, la sua società?

Un mese fa atterro all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, incuriosita e timorosa allo stesso tempo. Il mio collega di università, Carlo, arrivato in Israele due settimane prima di me, anch’egli per motivi di ricerca, mi ha avvisata del fatto che i controlli in aeroporto potessero durare anche delle ore, laddove ritenuto opportuno. È esattamente il trattamento a cui è stato sottoposto lui, trattenuto per un paio d’ore a causa di un timbro libanese sul passaporto. Io me la cavo con alcune domande sul motivo del mio arrivo in Israele da parte di una donna irritata e palesemente stanca.

Che per Israele la sicurezza sia la preoccupazione più grande è chiaro sin da subito; i militari sono dappertutto, rigorosamente armati. Esco dall’aeroporto e mi dirigo verso la stazione dei treni, e lì nuovamente militari, controlli e metal detector. E lo stesso accade, come avrò poi modo di constatare, ogni qualvolta si acceda ad un luogo pubblico, in particolare supermercati, centri commerciali e mercati.

Ripenso alla cronaca degli ultimi attentati succedutisi durante gli anni Novanta: nel ’96 di fronte al grande centro commerciale di Dizengoff a Tel Aviv, l’anno successivo il kamikaze fattosi esplodere nella stazione centrale degli autobus, o ancora a Netanya, a Ramat Eshkol, a Gerusalemme ed al mercato di Mahane Yehuda nel quartiere ebraico della città vecchia. E ripensandoci percepisco anche io un pizzico di insicurezza, destinato a durare pochissimo a fronte della pervasiva tranquillità e calma con cui la vita quotidiana si svolge lontano dai turbolenti confini.

Cambio in aeroporto i miei primi euro in shekelim, la moneta israeliana. Salgo sul primo taxi in direzione della casa del mio amico, vicino al quartiere Yemenita di Tel Aviv; ed è dal taxi che scorgo per la prima volta la città e scopro il Medio Oriente: case basse, diverse fra loro e spesso danneggiate che affacciano sulla strada, contrastando con le sue torri che, numerose, rappresentano l’emblema di una città che ha cambiato la sua architettura, e dove oggi si continua a costruire in verticale, con il contributo di architetti del calibro di Libeskud e Botta. Avrò poi modo di scoprire la Città Bianca di Tel Aviv, ossia gli estesi quartieri in stile Bauhaus risalenti agli anni ’30 e ’40, con il loro spigoli morbidi ed il bianco intonaco.

Rimango assorta ad osservare i colori della città illuminata e resto sorpresa dalla varietà dei fenotipi facciali: biondi ashkenaziti provenienti prevalentemente da Russia, Germania e Francia, sefarditi di origine prevalentemente spagnola e portoghese, mizrahi che arrivano dal Nordafrica e dal Medio Oriente, ebrei etiopi, per non parlare di arabi, cristiani, beduini e drusi; tante etnie in una terra in cui l’integrazione non è mai stata facile, e che ha dovuto farsi largo tra l’intolleranza atavica tra ebrei ed arabi nonché tra gli stessi ebrei, se si pensa che i mizrahim profughi dall’Iraq e dal Marocco venivano inviati ai margini dello Stato, nelle cosiddette “città dello sviluppo”,  nei desertici confini di Israele.

Tra questi pensieri terminano le mie prime ore nella terra promessa. Arriviamo in zona Rothschild, a casa di Carlo. Travolta e stravolta, dopo una fresca ma pessima birra israeliana, vado a dormire. Mi aspettano giorni intensi e pieni di incontri, qui in Israele.

LISA

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Una risposta a Diario di bordo: Israele e le sue domande

  1. avatar
    maria antonietta 17/11/2010 a 17:53

    Ciao Lisa, mi piace il tuo stile, leggere ciò che scrivi è un po’ condividere questa tua esperienza.
    Baci

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