
Diario di bordo: il viaggio continua
Tel Aviv - La mattina successiva, a svegliarmi, è un intenso profumo di pane. Il monolocale di Carlo si trova, infatti, sopra una ben fornita panetteria che inizia a lavorare non appena l’ultimo cliente di un pub alla moda, anch’esso sottocasa, lascia il locale. Il mio amico si lamenta un po’ per il trambusto notturno, ma è normale, siamo in centro, e Tel Aviv è una città che non dorme mai.
Giusto il tempo di prepararci e ripercorriamo le colorate vie del centro, quelle che prendono il nome da grandi politici e pensatori sionisti, scrittori, letterati e da qualche generale britannico che ha combattuto contro l’Impero Ottomano durante la I Guerra Mondiale. Non ritrovo, con malcelato stupore, il nome di alcun personaggio o luogo biblico, nessuna battaglia storica e grande protagonista dell’antico Regno d’Israele. D’un tratto mi appare chiaro quanto la storia moderna, il nazionalismo e il sionismo politico siano stati i veri protagonisti della nascita e dello sviluppo di Tel Aviv, così come di molte altre aree urbane.
Meir Dizengoff, che a quanto pare non è solo il nome di una grande via e di un famoso centro commerciale ma anche il cofondatore e primo sindaco della città, era iscritto al movimento sionista. Un movimento laico, il cui obiettivo principale era quello di costruire non uno Stato ebraico, ispirato ai valori tradizionali dell’ebraismo, ma uno Stato degli ebrei, inteso come comunità politica centralizzata ed organizzata. Visualizzo così, nella mia mente, un Israele d’un tratto perfettamente laico e progressista. Una visione parziale, lo so, perché c’è una mistica della nazione ebrea, una tensione e attenzione religiosa tutta particolare che però, al momento, non voglio sviscerare. Per questa questione c’è tempo.
Ora, io e Carlo, pensiamo alla colazione. Attendiamo una ragazza che lui ha conosciuto all’università e, nel frattempo, risolviamo il primo problema di semiotica della giornata. L’uomo rigorosamente armato che controlla l’entrata del bar ci parla in ebraico e porta una mano all’altezza del viso, poi congiunge i polpastrelli delle dita rivolgendole verso l’alto. Lo stesso gesto, che in Italia accompagna un rude “Che cosa vuoi? Che c’è?!”, in Israele significa di sicuro qualcos’altro perché la guardia non aspetta alcuna risposta dall’interlocutore, e poi perché lo ripropone continuamente anche ai nuovi affamati arrivati. Appena la ragazza arriva ci svela l’enigma: il gesto indica di attendere, aspettare. Niente di sgarbato dunque, e noi non ci sentiamo più “offesi”.
Prendiamo posto nel locale affollato. Liat è una bellissima ragazza ebrea israeliana, mora, carnagione olivastra e profondi occhi grigi. Vive nei pressi di Tel Aviv con la famiglia (genitori e due fratelli entrambi rabbini). È una ragazza solare, aperta e perfettamente integrata nella comunità e nella città in cui vive. Liat ha 24 anni e comincia solo adesso a frequentare l’università, per via della decisione di prolungare il servizio militare che l’ha portata, negli ultimi sei anni, a servire la sua nazione. È grazie a lei che scopro per la prima volta il mondo delle forze armate in Israele, il piccolo Stato assetato di difesa. Proprio per questo, mi illustra Liat, ragazzi e ragazze ebrei israeliani (compresi drusi e circassi, ad esclusione delle donne) prestano servizio militare obbligatorio, i primi per tre anni, le seconde per circa due. Anche gli arabi israeliani possono effettuare il servizio militare, ma sono previste alcune precauzionali restrizioni. I fratelli di Liat sono invece stati esentati dal servizio in quanto ortodossi ed iscritti alle scuole religiose, le yeshivot, sostenute economicamente dal governo per una cifra che si aggira sui 170 milioni di dollari l’anno.
La vita nell’arma è piacevole, dice Liat. Tutto dipende dallo spirito con cui si affronta la coscrizione e dalla capacità di integrarsi nel commando al quale si viene assegnati. I ragazzi stanno in gruppo, imparano ad usare le armi, si svegliano all’alba e svolgono diverse attività: quelli con il fisico più adatto diventano veri e propri soldati combattenti, altri vengono collocati nella sezione di intelligence, altri ancora stanno in cucina, fanno le pulizie, conducono i mezzi di trasporto. Anche gli orari di servizio variano da caso a caso, anche se comunemente il giorno libero per tutti è il sabato di festa ebraico, lo shabat, quando i militari, sparsi per tutta l’area del territorio israeliano e anche di quello occupato, tornano a casa.
Liat è stata, originariamente, inviata in un commando vicino ad Haifa e spostata, poi, a Gaza. È diventata capitano ed ha lavorato nell’intelligence, occupandosi dello scambio di delicate informazioni tra diverse unità. Quando racconta l’esperienza fatta a Gaza è serena, descrive la situazione con calma e riservatezza, evitando di rispondere a domande che richiedono risposte troppo dettagliate. Il suo punto di vista è quello del soldato israeliano che ha servito con passione il proprio Stato, che crede fortemente nella bontà dell’operato dell’esercito anche in quelle aree più difficili. «A Gaza – dice Liat con un perfetto accento americano, un lascito della costosa American High School da lei frequentata – il lavoro dei soldati è fondamentale: recapitiamo gli aiuti che arrivano via terra e via mare, sosteniamo e proteggiamo la popolazione. La situazione non è facile – continua -, a Gaza l’economia potrebbe funzionare quasi autonomamente, ma nonostante il ritiro di Israele da quella zona cinque anni fa, i Paesi arabi pensano solo ad attaccarci e si disinteressano completamente della popolazione. Non aiutano nessuno».
La guardo, ascolto le sue parole incuriosita e affascinata. È arrivato il momento di chiederle perché ha deciso di lasciare la carriera militare dopo tanti sforzi, visto anche la forte passione che nutriva per quello che faceva. Ricevo una risposta secca e cupa: «Perché mi trovavo a Gaza tre mesi fa. Allora ho detto basta».
Sorrido e per un attimo taccio, mentre la conversazione viene fatta scivolare abilmente da Carlo su un altro argomento. Spoglio Liat dell’aurea mitica che la mia mente ha creato attorno al suo personaggio e penso. Penso che la nostra nuova amica, prima di essere un soldato coraggioso, è una donna, e ancor prima di essere una donna, è un essere umano.
LISA
FOTO GALLERY
Mi piacciono i tuoi reportage
Grazie al tuo reportage mi avvicino gradualmente a una città che sarà mia per qualche mese, l’anno prossimo. E’ una corrispondenza molto preziosa!
Gaetano
Grazie tante per il sostegno ad entrambi! E Gaetano, in bocca al lupo per il tuo viaggio, sono sicura che ne resterai in qualche modo colpito, anche tu.