Cementificazione e Siti: Rapporto 2012 sulla qualità dell’ambiente urbano

Il rapporto 2012 sulla qualità dell’ambiente urbano stilato dall’ Ispra – Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – su un’analisi relativa a 51 comuni capoluogo ha fotografato la situazione di un’ Italia sempre più green dove i consumi d’acqua sono più razionali e i piani per rispondere ai cambiamenti climatici sono in dirittura d’arrivo.

Le cattive notizie arrivano però al capitolo “aria e suolo”: pessima la qualità della prima – frequenti superamenti del valore del limite giornaliero consentito per le polveri sottili (Pm10) –  straziato il secondo.

Infatti, dal 2001 al 2011 il processo di cementificazione ha subito un’impennata del + 8,77%: si calcola che ogni giorno vengano impermeabilizzati 100 ettari di terreno coltivabile. Il fenomeno coinvolge ovviamente soprattutto le aree pianeggianti costiere ed urbane, le più adatte per uso agricolo: la portata della crescita dei terreni edificabili va ben oltre il normale meccanismo di espansione delle periferie ed assorbe sempre più terreni che potrebbero essere destinati ad altre attività produttive. Secondo i dati diffusi dall’ Ispra, tra il 1995 e il 2009 i comuni italiani hanno rilasciato permessi per oltre 3,8 miliardi di metri cubi di suolo, di cui l’80% per la realizzazione di nuovi fabbricati, poco più del 40% dei quali sono destinati all’edilizia residenziale.

Così l’Italia investe nel mattone, e mentre migliaia di edifici residenziali rimangano vuoti, abitati solo dai fantasmi della crisi, vaste porzioni di territorio aspettano di essere riconvertite ad un utilizzo dignitoso, attraverso opere di riqualificazione e bonifica che potrebbero creare occupazione e diffondere una coscienza ambientale ancora lacunosa.

Dopo l’ Annuario dei dati ambientali diffuso a Luglio, questo rapporto specifico si colloca direttamente nel dibattito attuale  riportando alla luce il problema del danno ambientale e offrendo un quadro dei 57 Siti di Interesse Nazionale, pari al 3% del territorio, che aspettano di essere bonificati. Infatti, solo nove di essi hanno oltre il 50% di progetti di bonifica approvati.

La legislazione italiana classifica come Siti d’Interesse Nazionale – SIN -  quelle aree in cui l’inquinamento di suolo, sottosuolo, acque superficiali e sotterranee è talmente esteso e grave da costituire un serio pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente naturale. Si tratta principalmente di zone industriali dismesse, o aree in cui l’attività industriale è ancora attiva, porti, ex miniere, cave, discariche non conformi alla legislazione o abusive.

«La gravità della contaminazione in queste zone, con rilevanti impatti ambientali, sanitari e socio-economici, ha fatto sì che esse venissero prese in carico dallo Stato, con stanziamento di fondi ad hoc per la loro messa in sicurezza e bonifica» spiegava già un anno fa Greenpeace . «La possibilità di restituire ad altri usi aree più o meno grandi – se non immense – del territorio nazionale, ha giocato un ruolo non indifferente nella scelta di statalizzare la gestione delle bonifiche, lasciando alla giustizia ordinaria il compito di valutare, caso per caso, l’entità del danno ambientale e sanitario procurato dall’inquinamento di acqua, suolo e aria». Nella penisola che solo dopo decenni si è accorta e punta il dito contro l’Ilva, sopravvivono nel dimenticatoio tanti altri disastri ambientali impuniti.

Quando si parla di danno ambientale, bisogna considerare soprattutto le conseguenze sull’ambiente e sulla popolazione in seguito all’esposizione prolungata al danno stesso, quando esso non viene riparato. «L’inquinamento di acque, aria, suoli e le conseguenti ricadute sanitarie sulle popolazioni interessate, si estende infatti ben oltre quel 3% di territorio nazionale dichiarato inquinato», rivela Greenpeace. «Tutti gli interventi governativi per le bonifiche, tramite accordi di programma, prevedono anche una quantificazione del danno ambientale sofferto dalla collettività. L’aspetto economico è  importante, soprattutto quando la volontà politica di risolvere il problema viene a mancare».

Tuttavia, dal punto di vista legislativo, si rende assai complessa la quantificazione del reato di omessa bonifica, il quale dal 2006 è stato abrogato e riformulato in modo «più favorevole al reo». Attraverso il consueto scaricabarile giudiziario, è stato eliminato il reato di non partecipazione alla bonifica: quindi, senza un progetto approvato, il responsabile che si rifiuti di attuarlo non può essere sanzionato legalmente.

Si tratta di una normativa complicata e avversata dal mondo industriale che teme ripercussioni sui propri investimenti, soprattutto ora, dopo che la crisi ha portato alla progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici destinati alle opere di bonifica.

Nel 2009, fortemente volute dal Ministro Prestigiacomo, sono state introdotte nuove linee che dovrebbero «velocizzare le procedure in corso, permettendo a quelle imprese  riconosciute responsabili dell’inquinamento dei siti contaminati, di regolare il conto del danno ambientale e  sanitario procurato dalle loro attività attraverso  un negoziato diretto con le autorità pubbliche». Il problema sostanziale è che quasi sempre queste controversie, come nel recente caso di Eni e dei siti industriali incriminati primo fra tutti quello di Porto Torres, si concludono con offerte di transazioni da parte delle aziende, il cui importo pattuito non corrisponde mai all’investimento effettivamente necessario. In Italia, le opere di bonifica e riqualificazione sono concepite ancora come ostacoli alla produttività ed al guadagno, invece che come fonti di guadagno rinnovabile.

In Italia ci sono 57 SIN, perimetrati dal 1998 in poi sulla base di diverse leggi, ultima delle quali il Decreto Legislativo n.152 del 2006. I contaminanti maggiormente presenti all’interno dei SIN sono: diossine, idrocarburi policiclici aromatici, metalli pesanti, solventi organo clorurati e policlorobifenili (PCB). Il totale della superficie interessata consiste in 1.800 km² di aree marine, lagunari e lacustri e 5.500 km² di aree terrestri, per un totale di circa il 3% del territorio nazionale. I Comuni inclusi nei SIN sono oltre 300, con circa 9 milioni di abitanti.

Non c’è regione italiana che non abbia nel suo territorio almeno un sito contaminato. Il primato lo detiene la Lombardia, con ben 7 aree, seguita dalla Campania con 6, da Piemonte e Toscana con 5, da Puglia e Sicilia con 4. La Campania e la Sardegna sono le regioni dove ci sono le aree contaminate più vaste. Infine, oltre ai siti contaminati di interesse nazionale ci sono quelli di interesse regionale, che sono enormemente più numerosi (13.000 identificati come potenzialmente contaminati, di cui 5.000 da bonificare). Per queste aree la bonifica è di competenza regionale. E qui, soprattutto alla luce dei recenti scandali e annesse vicende giudiziarie, c’è poco da ricercare giustificazioni nei cavilli burocratici.

Arianna Fraccon

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