Carver: elettroni in libero arbitrio

In download gratuito l’opera prima della variegata band anonima. Tra melodie e frastuono sonico si nascondono nuovi inizi

di Stefano Gallone

Copertina dell'album

Quando non si hanno le mani in pasta in ambienti sconosciuti ai riflettori dei saccenti mezzi di comunicazione moderna, diventa davvero difficile scovare realtà disomogenee eppure sorprendentemente nuove nel loro apparire radicate in solidi ma molteplici e rivisitati terreni di partenza. Cercare, scavare, fiutare il sentore di innovativo è pregio di pochi fortunati; vedersi interpellati ad esaminare realtà differenti e piacevolmente disorientanti è pura estasi per orecchie mai stanche a nuovi ed interessanti ascolti. Va detto: ormai non si inventa più niente: “nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma”. Se ciò che viene sottoposto alle alchimie compositive, dunque, ha riferimenti, come in questa sede, in quello che si chiama “Elettro Pop” (di cui i Kraftwerk furono maestri), la colonna portante dell’innovazione sta tutta nel suo capovolgimento in chiave blues e cantautorale. Veder compiere simili operazioni al limite del chirurgico nei confini territoriali italiani, seppur con idee, spunti e sentimenti di frontiera, lascia ben sperare in un futuro che in molti vogliono, a tutti i costi, credere morto e sepolto.

Carver” è il loro nome. Figli di N.N (i componenti non intendono divulgare la loro identità…un po’ stile Gorillaz senza il passato Blur smascherato), preferiscono presentarsi a chi vuole prestare loro qualche minuto del suo preziosissimo tempo, fatto di quotidianità unidirezionale e apatia post travaglio, semplicemente con la scarica uditiva e la potenza sostanziale dei nove pezzi che compongono “Deodato“, primo lavoro in studio e ottimo esempio di libera diffusione d’arte per mezzo digitale. Il disco, infatti, è unicamente reperibile, in via assolutamente gratuita, al seguente indirizzo: http://carver.bandcamp.com/album/deodato; una succulenta opportunità, dunque, per chi sostiene di avere un benché minimo interesse nell’usufruire di qualcosa di divertente ma, al tempo stesso, importante a livello tecnico in quanto, forse, precursore di sonorità spiazzanti e variegate nel contesto di un’opera mai latente e sempre sul punto di esplodere in positivi eccessi di creatività priva di futili virtuosismi.

Un'immagine allegata al download dell'album

Le danze si aprono sulla folle introduzione omonima “Deodato”, dodici secondi di puro ma ragionato frastuono ai limiti dell’aleatorio (che tanto ricorda le malsane intenzioni di un John Zorn nel periodo Naked City), liberamente dedicato all’omonimo regista del terrificante “Cannibal holocaust”; si adagiano, poi, le membra sui primi accenni di elettronica melodica di “Propaganda”, notevole assaggio delle frequenti iniezioni di voci e suoni provenienti da mass media o atmosfere ambientali colte in flagrante (qui di matrice ostinatamente politica e civile, con inserti da discorsi del “venerabile” Licio Gelli) su un kraut rock puro e genuino.

Ma se i punti cardini dell’idea che ha permesso di stendere la scrittura dell’album sembrano, a questo punto, essere stati fissati, ecco che l’ascoltatore viene traghettato, a piacevole tradimento, verso un vero e proprio oceano di possibilità strutturali tanto disomogenee quanto uniche nel loro formare un insieme valutabile esclusivamente nel complesso del lavoro: è su queste basi concettuali che si fa spazio la sorprendentemente pinkfloydiana “Do you remember” (con probabili similitudini ai Porcupine Tree della splendida “Black Dahlia” dell’ultima uscita discografica); segue un fugace ritorno melodico in “Buffalo” ma è di nuovo aria di anarchia elettronica nella allucinante “China street market”, un puro incatenamento tra l’elettro pop più dissonante e i monologhi cinematografici di un Tarantino in verve narrativa alla “Pulp fiction”.

“La domenica”, poi, è un graziosissimo omaggio alla passione calcistica di gran parte della popolazione italiana, costruito, ancora una volta, su basi pinkfloydiane per favorire l’inserimento di estratti radiofonici provenienti da una accurata ricerca sonora di storiche cronache sportive. Fa seguito (spiazzando nuovamente) il blues moderno di “Vito”, denso di un’aria zappiana del più complesso e sfacciato “Roxy & elsewhere” con tanto di atletismo chitarristico e incursioni flautistiche dall’aria progressive, elementi sartorialmente inseriti nel mezzo di una storia narrata sconfinando in accenni di sadismo noir. “Makaroni” (lo dice stesso il titolo), per mezzo di un consolidato collage radiofonico, è un potente sberleffo all’idea mafiosa del contesto globale appartenente allo stivale, una rassegnata sottomissione ad una coscienza collettiva addormentata e cinicamente adibita a giocare col fuoco delle libertà civili maniacalmante profanate, mentre la terminale “Nicotina”, sembra voler placare gli animi finora scossi e malmenati a livello uditivo per mezzo di un toccante uso pianistico ambientale finalizato a concedere un nutritivo sospiro di sollievo dotato, però, di lievi e quasi indistinguibili dissonanze utili a mantenere un subliminale senso di disagio interiore (un po’ come Scorsese opera attraverso il finale ed improvviso scatto del Travis Bickle di “Taxi driver” nella sua dimora-abitacolo).

Tante sono le indecisioni se si vuole classificare una simile opera in un contesto ben preciso. D’altra parte, sembra essere proprio questa l’idea di base dei Carver: non avere un’identità sia in senso personale che nell’ambito artistico, non avere schemi nè particolari punti di riferimento in un’etica assolutamente “free” nel suo essere coscienziosa di appartenere ad un contesto artistico e culturale allo sbando, immerso nel caos delle idee presenti ma mancate nel loro intento realizzativo.

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