Antonio Rezza e Flavia Mastrella: ‘Io’ e la violenza dell’arte. L’intervista

Il progetto HUB porta a Salerno Antonio Rezza e Flavia Mastrella in 'Io'. A Wakeupnews i due autori esplorano il rapporto con la propria arte e il controverso teatro civile

Antonio Rezza

Antonio Rezza

Giovedì 27 marzo Antonio Rezza presenterà, sul palco del Teatro Nuovo di Salerno, lo spettacolo Io, nato nel 1998 dalla mente dell’artista piemontese. Dissacrante, divertente ed irriverente come sempre, Rezza si muoverà sul palcoscenico arricchito dai quadri scenici di Flavia Mastrella, elementi spaziali indispensabili per la comprensione del testo e della narrazione. Lo spettacolo Io si inserisce nel progetto HUB, network di promozione delle Culture Contemporanee, nato con l’obiettivo di creare un collegamento di sviluppo culturale legato al territorio delle province di Salerno ed Avellino.

In occasione della messa in scena salernitana di Io, Antonio Rezza e Flavia Mastrella si sono concessi a WakeUpNews in un’interessante intervista, analizzando e spiegando a ruota libera la loro complessa ed autentica arte. Ad Antonio Rezza tocca presentare il significato intrinseco dello spettacolo Io, ma il performer svarierà a tutto campo. Senza tralasciare il rapporto con il pubblico e la sua provocatoria visione del teatro e delle cosiddette arti sociali e civili.

Rezza, giovedì a Salerno porterà in scena Io. Interroghiamoci sulla grammatica del titolo: perché sceglie di utilizzare un pronome personale come nome proprio?

«Semplicemente perché è uno spettacolo sull’individualismo. Il personaggio si definisce Io così come io posso definirmi Antonio ed usa il pronome come nome. Questo Io è il personaggio principale ma allo stesso tempo è il senso dello spettacolo; è un’opera sull’abbandono delle speranze fatue e di tutto ciò che rappresenta l’unione tra le persone«.

La trama dello spettacolo parte però da un nucleo collettivo, la famiglia Noi che dà alla luce il figlio Io.

«È solamente un gioco di pronomi, è una scusa per giocare con il noi e con l’io, perché poi ad essere totalmente predominante è la presenza dell’individualismo, non c’è collettività».

La sua idea dell’abbandono di collettività abbraccia anche il campo sociale, non solo quello artistico. Ha davvero una visione così pessimistica della vita e della società?

«Per collettività intendo tutto ciò che è corporazione. Non è una visione pessimistica, ma realistica. In fin dei conti, sono secoli che le corporazioni non portano a nulla».

Anche in Pitecus affronta il tema delle corporazioni, parlando, ad esempio di religioni.

«Tra i due spettacoli c’è però una differenza di spazi. I quadri scenici composti da Flavia Mastrella per Pitecus erano maggiori, c’erano più personaggi. In Io ci sono meno quadri, anche come conseguenza dell’individualismo attorno a cui ruota il tutto».

Antonio Rezza nello spettacolo 'Io'

Antonio Rezza nello spettacolo ‘Io’

Che rapporto ha con pubblico che la segue e l’ascolta?

«Ho un rapporto di scambio di energia; per me il pubblico è energia pura, è come il motore che mi mette in moto, è il mio motore. Provo profondo rispetto per il pubblico, proprio perché non viene previsto al momento della creazione di uno spettacolo. Né io né Flavia pensiamo al pubblico quando creiamo, cosa che invece il teatro e l’espressione in generale spesso fanno in malafede. Nel cinema soprattutto: film che vincono in tutto il mondo pensano prima a strizzare l’occhio al pubblico e poi a se stessi. Noi guardiamo al pubblico come una componente energetica, senza la loro energia non sarebbe possibile mettere in moto la nostra.

Nei suoi spettacoli il pubblico è spesso oggetto di presa in giro e, divertito, ne ride compiaciuto.

«In Fratto X, ad esempio, c’è una manipolazione, in modo psicologico e depravato, ma ci tengo a precisare che io non prendo in giro il pubblico. Il pubblico è preso in giro dalla narrazione. Chi fa teatro civile e sociale lo prende in giro, perché si fa finanziare in modo ignaro dal pubblico. Io ho profondo rispetto del pubblico, è un’entità miracolosa, perché è un miracolo che ci siano ogni sera tutte queste persone lì per noi. Lo temo e lo rispetto. Il pubblico ti può uccidere con i giudizi, ha una potenza inaudita. Anche quando applaude ti può uccidere».

Parla della malafede di altre arti e del modo in qui queste vengono utilizzate. È critico nei confronti di ciò che circonda, arte, cinema e letteratura, nonostante lei abbia utilizzato tutti questi mezzi di espressione?

«Io li ho utilizzati sempre insieme a Flavia Mastrella; io ci metto il corpo, lei ci mette lo spazio e le creazioni nascono sempre in connubio. Io penso che l’arte dovrebbe essere frutto solo della fantasia in modo radicale e non della civiltà; detesto chi parla di società nelle opere e chi cerca di risolvere i problemi del pubblico. Noi non risolviamo nulla, noi creiamo problemi».

Create spunti di riflessione?

«No, riflessione no, non siamo degli oracoli. Se il pubblico riflette lo fa di sua spontanea volontà. Se io parlo di una strage che c’è stata, infliggo al pubblico la comprensione di un fenomeno che già conosce. E questo mi sembra molto sporco, molto in malafede».

Lei e Flavia Mastrella create quindi per voi stessi e non per ottenere necessariamente un riscontro…

«In ogni disciplina possiamo citare almeno due o tre eccellenze di artisti che producevano per se stessi. Kubrick non penso facesse film per il pubblico, Picasso disegnava per se stesso. Noi produciamo per noi stessi sapendo che quello che facciamo è per tutti. Potremmo essere miliardari da almeno vent’anni, ma l’indipendenza che portiamo avanti non ce lo consente. È chiaro come ci muoviamo all’interno di un sistema che rifugge l’indipendenza. Noi preferiamo render conto solo a noi stessi. Quindi, in termini di riscontro, i soldi non ce li fanno ancora fare. Li faremo da morti».

Flavia Mastrella

Flavia Mastrella

Con Flavia Mastrella è inevitabile invece iniziare la chiacchierata focalizzando l’attenzione sul suo ruolo nella creazione degli habitat scenici per Rezza.

Tutti gli spettacoli messi in scena nascono da una vostra equivalente collaborazione?

«Si, ma sono frutto di due fantasie differenti e di due influenze artistiche differenti».

Rezza dice che lui ci mette il corpo, lei crea invece lo spazio scenico.

«I miei sono habitat, non si può parlare di scenografia. La scenografia è al servizio della drammaturgia, l’habitat è un luogo da vivere. Io faccio gli habitat per l’arte pura e gli habitat per Antonio. Sono luoghi in cui si entra in un’altra dimensione che non è quella della realtà, né tantomeno esterna. È un’architettura interna».

Questa architettura interna che lo spettatore non percepisce immediatamente, secondo lei, può paradossalmente agevolare l’interpretazione dello spettatore, che non si trova di fronte ad una forma spaziale predefinita?

«Si, è una formula di comunicazione. Da forme diverse – ma che ricordano vagamente la realtà – si ottiene una deformazione, che lascia immaginare il luogo dell’accadimento, ma anche l’accadimento stesso attraverso il testo«.

E forse questa è una delle maggiori peculiarità dei vostri spettacoli.

«Non avendo una forte cultura teatrale di base, abbiamo attinto da altre fonti. Io vengo dal mondo dell’arte, mentre Antonio è un performer. A nostro parere non ha più senso il teatro fatto in un certo modo, come non ha più senso il teatro di ricerca degli anni 70, che adesso viene riproposto in continuazione».

Rezza parlava di un rifiuto nei confronti del teatro sociale e di riflessione, quando vuole essere educativo. La sua posizione?

«Quando una forma d’arte diventa didattica significa che non è arte. L’arte deve essere violenta, deve essere irritante, deve essere dirompente. Noi pensiamo prima a ciò che vogliamo fare, non lavoriamo per il pubblico o la critica, altrimenti costruiremmo qualcosa di artificioso e non spontaneo. L’arte didattica è una prerogativa del teatro finanziato dallo Stato, che fa l’interesse dello Stato».

Alessia Telesca

foto: deejay.it; uncomag.com

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