
Alike, il corto che mette in guardia dall’educazione all’omologazione
Alike è un corto d'animazione che mette in guardia gli adulti e i genitori dal pericolo dell'omologazione, e fa riflettere sulle cose importanti della vita
La competitività è, oggi, una cultura diffusa e condivisa che trova conferme anche negli ambienti meno sospetti, come la scuola, il campetto di calcio, l’oratorio. Da questi luoghi i bambini e gli adolescenti sono trasformati in adulti sicuri e arroganti, freddi, sempre di fretta, gente capace di comandare e di pretendere. È quello che mostra il corto d’animazione Alike, diretto da Daniel Martínez Lara e Rafa Cano Méndez, vincitore del premio Goya del cinema come miglior corto del 2016, che mette in evidenza come i luoghi abituali dove i bambini apprendono e crescono tendano a sopprimere le loro diverse personalità, cercando di renderli tutti uguali, eliminando le loro caratteristiche specifiche individuali, omologandoli.
In particolare la scuola ha accolto la pretesa avanzata da molti genitori: richiedere ai più piccoli la perfezione. La figura del bambino e dell’adolescente che incarna meglio questa richiesta è il cosiddetto “primo della classe”: quei ragazzi che quando tornano a casa e dicono ai genitori di aver preso sette in italiano, si sentono rispondere ma non prendevi sempre nove?
Questa condizione non è l’ideale per la crescita psicologica di una persona, e di solito ce ne si accorge alla fine di un ciclo scolastico. Molti dei percorsi che portano un adolescente a farsi del male nei tanti modi possibili iniziano da una perfezione forzata, dalle attese che i genitori hanno nei confronti dei figli e che ai ragazzi pesano addosso come macigni. La competizione non è per tutti e soprattutto non seleziona i migliori, solo i meno sensibili.
Il bambino protagonista del corto d’animazione Alike ha una particolare attitudine per l’arte e una inclinazione per la musica: la mattina, fermarsi ad ascoltare il musicista di strada, gli provoca emozioni intense. Ma puntualmente viene strattonato via dal padre, il quale pensa che invece di perdere tempo a sentire quell’uomo suonare, il figlio dovrebbe affrettarsi, in modo da non arrivare in ritardo a lezione. Oltretutto, il padre è innervosito dal fatto che il figlio invece di imparare a scrivere correttamente e con ordine, disegna fiori e animali insieme alle lettere dell’alfabeto.
Infatti, a scuola, ogni volta che consegna una pagina di lettere miste a splendidi disegni, al piccolo viene consegnato un altro foglio su cui rifare il lavoro, per bene.
Ma la scuola deve per forza assecondare l’omologazione, per trasformare tutti i bambini in piccoli amministratori delegati, o potrebbe tentare di essere un luogo capace di insegnare a sopravvivere anche a quei bambini che non vogliono omologarsi e restare persone sensibili?
Un bambino ha diritto di vivere il proprio tempo non come un incubo – compiti, sport, corso di lingua straniera, laboratorio di teatro, di cucina, di pittura, di cinema, di musica – ma come divertimento, gioco, gioia.
Il tempo libero sembra essere diventato una cosa rara: non ne abbiamo più, e se ne abbiamo non sappiamo come usarlo. Dobbiamo imparare di nuovo a perdere tempo, e insegnarlo ai bambini: perdere tempo significa “riempire di senso un agitarsi continuo e vano”.
Dobbiamo insegnare ai bambini che il tempo è luogo di comunicazione, di conoscenza delle diversità, transito di affetti ed emozioni, ma anche solitudine, a volte disincanto, frustrazione. Se riusciamo a dare il tempo ai nostri bambini, insegneremo loro a cercarlo, a conservarlo e così, forse, potranno inventarsi una vita meno scontata.